Cosa insegna la crisi greca: Berlino tira sempre tardi ma questa volta rischia grosso

C’è una costante nel modo in cui la Germania di Angela Merkel ha affrontato i vari capitoli della crisi dei debiti sovrani dell’eurozona: rimandare nel tempo le decisioni sgradite, lanciare la palla in tribuna, prendere tempo con la segreta speranza di far digerire all’opinione pubblica tedesca i vari e inevitabili salvataggi dei cinque paesi in difficoltà che via via si sono susseguiti dal 2010. Con il risultato di far incancrenire le situazioni, far risorgere vecchi nazionalismi, rendere più salato il conto finale.
Qualche esempio di questa tattica dilatoria? L’ex membro del board della Bce, Lorenzo Bini-Smaghi rivela nel suo libro “Morire di austerity” del 2013 che il cancelliere tedesco Angela Merkel ha continuato a pensare che la Grecia avrebbe potuto essere fatta uscire dall’euro senza rischi fino all’inizio dell’autunno 2012, salvo poi essere riportata a più miti consigli dalla stessa Bundesbank di Jens Weidmann, il quale le fece notare i 574 miliardi di euro di crediti che vantava verso le banche centrali di Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia, Cipro e Slovenia attraverso il programma Target2.
Debiti che, in caso di default di uno di questi paesi, sarebbero rimasti a carico delle banche tedesche esposte con il rischio di far ricadere la valanga sulle spalle dei contribuenti di Berlino.
Insomma la Merkel cambiò idea quando, ad un certo punto sull’orlo del baratro, si rese conto che l’espulsione della Grecia avrebbe scatenato l’effetto domino che avrebbero inghiottito l’intero euro-sistema coinvolgendo nel vortice anche le banche tedesche, come aveva insegnato la lezione del default della Lehman Brother il 15 settembre 2008. A quel punto il cancelliere venuto dall’Est ha prontamente invertito la rotta, correndo ad Atene per sostenere il nuovo governo guidato da Antonis Samaras e i suoi sforzi. (“Merkel l’ha capito solo nell’autunno del 2012”), scrive testualmente Bini-Smaghi nel suo libro-testimonianza.
Nel frattempo nel maggio 2010 era stato deciso un aiuto ad Atene di 110 miliardi di euro, il 26-27 ottobre del 2011 nel corso del 14° vertice sulla crisi in 21 mesi si aggiunsero altri 130 miliardi di euro di aiuti e il taglio (haircut) del 53,5% per cento del valore facciale su 206 miliardi di euro di bond, pari a oltre 100 miliardi di euro di perdite per i detentori privati di bond ellenici, la maggiore ristrutturazione obbligazionaria della storia moderna.
Il 17 giugno 2012 Nea Dimokratia, il partito conservatore di Antonis Samaras vince le elezioni politiche in Grecia contro Syriza di Alexis Tsipras ed evita la possibile uscita dall’euro di Atene, ma solo dopo alcuni mesi (autunno dice Bini Smaghi) la Merkel decide di mettere definitivamente in soffita l’ipotesi con cui si era baloccata di abbandonare la Grecia al suo destino.
Il 25 giugno 2012 a seguito dell’haircut sui bond greci acquistati massicciamente dalle banche cipriote, Cipro chiede aiuti alla Ue. Anche in questa occasione le cose vanno per le lunghe: le rilevazioni del New York Times raccontano che Jens Weidmann, presidente della Banca centrale tedesca, si oppose al salvataggio contestando il valore dei collaterali offerti dalla Laiki Bank, la seconda banca cipriota. Alla fine Cipro accettò le condizioni poste dalla Ue e dalla Bce e un piano di salvataggio. Programma, infine accettato dal governo di Nicosia dopo molte traversie tra cui la richiesta di aiuti a Mosca poi bocciata, che consisteva in un prelievo forzoso sui conti correnti oltre i 100mila euro e nella liquidazione della Laiki Bank. In quell’occasione Jeroen Dijsselbloem, capo dei ministri finanziari dell’eurozona, cercò di coinvolgere nelle perdite anche i conti correnti sotto la quota dei 100mila euro, un passo falso che dovette prontamente essere rivisto.
Il 26 luglio 2012, il presidente della Bce, Mario Draghi, dice a Londra che la Bce farà quasiasi cosa necessario per proteggere l’euro e successivamente lancia l’Omt, il programma di acquisto illimitato di titoli di Stato il cui solo annuncio ha contribuito in maniera determinante a calmare le acque sul mercato del reddito fisso.
La questione francese -Tutta questa cautela forse sta per essere spazzata via con la Francia. La Germania deve investire 50 miliardi euro supplementari, cioè passare dal 17 al 20% del Pil secondo i dati Ocse. È interesse comune dell’Ue che «la Germania investa». Così il ministro francese dell’Economia, Emmanuel Macron, parlando al quotidiano tedesco ‘Frankfurter Allgemeine Zeitung’ prima dell’incontro del 20 ottobre 2014 con gli omologhi tedeschi a Berlino. Macron ha anche messo in guardia il Governo guidato da Angela Merkel «da una esagerata politica di risparmi». Con queste affermazioni Macron si schiera con numerosi politici ed economisti, tra l’Fmi e l’amministrazione Obama, che chiedono alla Germania più investimenti e quindi più debito. Il conservatore ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, e quello socialdemocratico dell’Economia, Sigmar Gabriel, non ne vogliono comunque sapere, come al solito e i problemi così si fanno più complessi. Ma forse questa volta è molto rischioso tirare troppo la corda e far salire il costo finale della soluzione quando si tratta dei destini della seconda economia dell’euro, il maggior partner di Berlino.