Ad Afrin Erdogan ha ottenuto una vittoria di Pirro

Ad Afrin il presidente turco Recep Erdogan ha vinto una battaglia contro i curdi siriani dell’YPG, ma rischia di perdere la guerra. Basta leggere il tenore sempre più allarmato delle dichiarazioni che provengono dagli Stati Uniti dopo il brusco passaggio di consegne al nuovo Segretario di Stato, Mike Pompeo, che ha sostituito il più morbido ed inesperto Rex Tillerson per capire che la pazienza di Trump è ormai al limite. “Ulteriori operazioni oltre le regioni di confine attireranno più forze e aggraveranno ulteriormente una situazione umanitaria già in peggioramento”, ha detto in una nota il colonnello Rob Manning, un portavoce del Pentagono.
Ankara però fa orecchie da mercante agli avvisi di Washington puntando su una sostanziale impunità e sul fatto di essere il bastione Nato nel Mediterraneo orientale. Erdogan e il suo governo considera la milizia siriana curda dell’YPG come un’estensione del gruppo separatista del PKK curdo che combatte l’esercito turco dal 1980 con un bilancio di 40mila morti, ed è classificata come organizzazione terroristica dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dalla Turchia.
Le relazioni diplomatiche tra Ankara e gli Stati Uniti sono però sempre più tese proprio per il sostegno di Washington a favore delle milizie curde dell’YPG che hanno vittoriosamente contrastato l’Isis sul terreno, ma ora uno scontro diretto tra turchi e americani è sempre più probabile dopo che la Turchia ha affermato che non intende moderarsi e di voler continuare nella sua belligerante politica neo ottomana per costringere alla ritirata a est dell’Eufrate i combattenti curdi dalle zone in cui sono affiancati da reparti speciali degli Stati Uniti situati a Manbij. Ipotesi eccessive? Forse, ma a giocare con il fuoco si rischia alla fine di scottarsi.
Un tentativo di ingannare
Erdogan ha addirittura accusato Washington di “tentare di ingannare” la Turchia dicendo che i combattenti curdi dell’YPG erano armati solo contro lo Stato islamico. “La presa di Afrin è un trionfo per Erdogan a livello nazionale, ma ha un costo molto alto per l’immagine internazionale della Turchia e il suo rapporto con i principali partner”, ha detto Wolfango Piccoli, co-fondatore di Teneo Intelligence, una società di consulenza con sede a Londra. “La Russia, i cui militari hanno modificato le sorti della guerra in Siria a favore del presidente Bashar al-Assad, è riuscita a intensificare le divisioni tra la Turchia e gli Stati Uniti “, ha aggiunto acutamente Piccoli. Insomma Putin starebbe spingendo Erdogan allo scontro con gli Usa che in teoria sono alleati Nato di Ankara.
Ma le tensioni non si limitano a quelle geopolitiche. Molti osservatori sono preoccupati anche dei rapporti finanziari tra Usa e Turchia. Secondo aluni sarebbe addirittura già cominciata la “guerra” finanziaria sul Bosforo. L’agenzia di rating Moody’s ha recentemente tagliato ulteriormente il rating sovrano della Turchia portandolo ancor di più nel territorio dei titoli-spazzatura (junk bond). Le cause della mossa? L’Agenzia ha citato un continuo indebolimento delle sue istituzioni economiche e politiche e l’aumento dei rischi derivanti dall’ampio deficit delle partite correnti. La valutazione è stata ridotta di un notch a Ba2.
“Il governo sembra essere ancora concentrato su misure a breve termine, a scapito di una politica monetaria efficace e di riforme economiche fondamentali”, ha detto dura Moody’s. In un contesto istituzionale negativo, la posizione esterna, il debito e le esigenze di rinnovo dei bond in scadenza della Turchia hanno continuato a deteriorarsi, ha scritto l’Agenzia internazionale.
Il downgrade è stato in gran parte assorbito dai mercati finanziari turchi. Moody’s aveva già tagliato il rating della Turchia a un rating di non investment grade a Ba1 nel settembre 2016 a seguito di un fallito colpo di stato, che ha minato la fiducia degli investitori nei confronti di quello che un tempo era considerato uno dei mercati emergenti più promettenti al mondo.
Un banchiere di investimento ha descritto il downgrade come uno “sviluppo a sorpresa” che potrebbe esercitare una certa pressione sui mercati turchi, sebbene abbia fatto notare che non vi è alcuna differenza fondamentale tra un rating Ba1 e Ba2.
“Penso che questa decisione rifletta il corso delle relazioni tra Turchia e Stati Uniti, dal momento che non siamo in una posizione diversa in senso economico da dove eravamo un anno fa”, ha detto il banchiere alla Reuters, che ha rifiutato di essere identificato.
Le relazioni tra gli alleati della Nato sono diventate sempre più tese per una serie di questioni, tra cui il sostegno degli Stati Uniti a una milizia curda siriana che Ankara considera un gruppo terroristico e la condanna di un dirigente di una banca statale turca in un caso di non rispetto delle sanzioni economiche decise verso l’Iran da parte degli Stati Uniti.
Il downgrade non ha creato, per ora, grossi scossoni nei mercati turchi. La lira è scesa leggermente ma il rendimento dei titoli benchmark a 10 anni è però salito al 12,28%. Segno che se Erdogan dovesse continuare con questa politica neo-ottomana di scontro con Washington e i vicini dovrebbe mettere in conto l’aumento dei rendimenti. Ma Erdogan è quello che aveva detto ai tempi della protesta di Gezi Park che i mercati erano manovrati solo dagli speculatori. “I rischi citati non sono nuovi per il mercato e l’attenzione si concentra principalmente sul sentimento di rischio globale piuttosto che sugli sviluppi locali”, ha detto lo stratega BNP Paribas TEB, Erkin Isik.
RISCHIO DI SCOSSE ESTERNE
Moody’s ha anche fatto riferimento al “maggiore rischio di uno shock esterno che si sta cristallizzando, dati gli ampi deficit del conto corrente del paese, un debito estero più elevato e grandi richieste di rollover dei bond associate nel contesto di maggiori rischi politici”. Insomma in un contesto di aumento dei tassi Usa e fine del Qe della Bce i richi dei paesi emergenti indebitati e con bassa crescita tornerebbero ad essere più significativi. Inoltre mercoledì la banca centrale turca ha mantenuto costanti i tassi d’interesse e ha dichiarato che manterrebbe la politica monetaria espansiva anche di fronte all’inflazione a due cifre. Una assurdità economica.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha però ripetutamente chiesto la riduzione dei tassi per rilanciare l’economia, aumentando la preoccupazione degli investitori per la forte pressione politica sulla banca centrale.
Erdogan ha criticato le decisioni delle agenzie di rating e ha accusato Moody’s di fare una mossa politica come con il suo precedente downgrade nel 2016. “Metti qualche centesimo in tasca e ottieni il voto che vuoi, è così che funzionano”, disse sprezzante all’epoca.
Moody’s ha detto che l’erosione delle istituzioni esecutive della Turchia è continuata con la purga generalizzata seguita al fallito colpo di stato del luglio 2016. Successivamente è stato imposto uno stato di emergenza che rimane in vigore.
In seguito a una repressione di massa dopo il fallimento del colpo di stato, oltre 50.000 persone sono state incarcerate in attesa di processo per presunti legami con i cospiratori, mentre 150.000 persone sono state licenziate o sospese da impieghi nel settore militare, pubblico e privato. Moody’s ha modificato la sua prospettiva sulla Turchia da “stabile” a “negativo”, dopo averlo ridotto a negativo nel marzo 2017.
Tra le altre agenzie, Standard & Poor’s ha un rating sovrano BB sulla Turchia, in linea con il rating di Moody’s. A gennaio dello scorso anno Fitch ha declassato la Turchia a “junk” con un rating di BB +, un livello più alto di Moody’s e S&P.
La Turchia dipende dai flussi di investimento per finanziare il suo disavanzo delle partite correnti, uno dei più grandi del G20, e servire così il suo debito estero. I downgrade di rating potrebbero costringerla a pagare di più per prendere in prestito denaro nei mercati internazionali. L’anno scorso, il deficit delle partite correnti turche è aumentato a 47,1 miliardi di dollari, superando l’obiettivo del governo. Non un segnale incoraggiante.