E’ sintomatico che l’uscita di scena dello capo stratega Steve Bannon dalla Casa Bianca e la conseguente vittoria di Gary Cohn, ex presidente di Goldman Sachs e oggi capo del consiglio economico di Donald Trump arrivi nel mese di agosto. Lo stesso mese di dieci anni fa, quando la banca francese BNP Paribas decideva di limitare l’accesso degli investitori ai loro risparmi che avevano depositato in tre fondi. Quando, il 9 agosto 2007, il gruppo BNP Paribas congelò 2,2 miliardi di dollari di fondi, doveva apparire chiaro l’arrivo all’orizzonte di una crisi finanziaria. Ma la risposta fu cauta fino a quando l’anno successivo con il fallimento il 15 settembre 2008 di Lehman Brother la crisi esplose in tutta la sua virulenza.
Dopo dieci anni la strategia per uscire dalla crisi e voltare pagina con quel modello di sviluppo,- come descrive l’economista Mohamed El-Erian di Allianz – “fatto soprattutto di liquidità e leva finanziaria dimenticando infrastrutture, istruzione e capitale umano” – passa ancora una volta dalla Casa Bianca e da due ex di Goldman Sachs: Bannon e Cohn, il primo a favore di un guerra commerciale contro la Cina e il secondo per il mantenimento dello status quo. Bannon, ideologo della Alt-right, la destra alternativa e artefice della vittoria di Trump tra i ceti sociali sconfitti dalla globalizzazione, non ha fatto mistero di avere cercato alleanze con un intellettuale della sinistra radicale come Robert Kuttner di American Prospect per stringere un patto segreto delle due estreme contro la politica commerciale a favore della Cina e contro l’establishment che sostiene la politica ideata da Wall Street negli anni 90 che potremmo riassumere nella seguente frase: alla Cina la supremazia manifatturiera e agli Stati Uniti quella finanziaria. Kuttner però ha subito svelato il colloquio con Bannon facendolo licenziare in tronco.
Cohn ha vinto e quindi, per ora, Pechino continuerà ad essere la fabbrica del mondo e a produrre manufatti tecnologici di società americane i cui profitti verranno parcheggiati spesso in paradisi fiscali in attesa del loro rientro in patria: in cambio Pechino continuerà a comprare e detenere bond Usa. Un equilibrio del terrore dove al posto dei missili nucleari ci sono i miliardi di dollari di Treasury bond detenuti nei caveau cinesi e le minacce protezioniste di Trump dall’altro lato della barricata. Una sorta di Guerra fredda economica.
Bannon, descritto nel libro di Joshua Green ( Devil’s Bargain ) come un presidente-ombra e un protezionista, voleva rompere questa patto e far rientrare produzioni oggi delocalizzate in Cina negli Usa e spezzare così l’abbraccio mortale con Pechino.
Secondo Jake Novak commentatore della CNBC “Wall Street odiava la scelta di Bannon per ulteriori politiche protezionistiche, in particolare con la Cina. L’establishment politico di Washington detestava la mancanza di legami di Bannon con loro e di un reale rispetto per il loro ruolo. Al contrario, Cohn è un prodotto di Goldman Sachs che rappresenta una corretta preferenza politica per le politiche di crescita economica sull’ideologia”. In realtà Cohn predilige la globalizzazione contro le politiche protezionistiche.
Che lo scontro tra i due consiglieri della Casa Bianca fosse la posizione da tenere con la Cina è emersa chiaramente anche nell’intervista che Bannon ha dato a Kuttner: “Il piano di attacco di Bannon comprende: una denuncia ai sensi della Sezione 301 della legge commerciale del 1974 contro la coercizione cinese dei trasferimenti tecnologici da parte delle società americane che fanno business in Cina e di dare seguito alle denunce contro il dumping dell’acciaio e dell’alluminio. Siamo giunti alla conclusione che siamo in una guerra economica e ci stanno schiacciando”.
Ma il presidente americano Donald Trump, per ora, ha dato partita vinta al suo consigliere economico Gary Cohn che ha suggerito che il primato sulla produzione restasse ai cinesi e quello della finanza mondiale a Wall Street. In attesa della controffensiva di Bannon sul sito Breitbart.