Cala seppur con gradualità il sipario sul quantitative easing, la politica monetaria non convenzionale con cui Mario Draghi sulla scia della Fed di Ben Bernanke ha evitato la trappola della deflazione in Europa sullo stile di quanto è accaduto in Giappone. E a sancire l’addio, stabilendo tempi e modi del ‘Qe’, cioè l’uscita dal quantitative easing che ha raggiunto se non gli scopi per cui è stato messo in campo almeno lo zenit del suo percorso, sarà la riunione della Bce di giovedì 26 ottobre a Francoforte. Momento storico in ogni caso, qualsiasi sia la decisione.
Con un’inflazione ancora sotto l’obiettivo del 2% (è all’1,5% per l’Eurozona), Draghi e il board della Bce sono chiamati a un difficile compromesso. Da una parte le pressioni di Paesi come la Germania e l’Olanda, i falchi convinti che il Qe, che ha portato nel bilancio della Bce 2.100 miliardi di euro di titoli creando in meno di tre anni un’espansione monetaria pari al 40% del Pil dell’Eurozona, abbia raggiunto il suo scopo e il suo zenit nel firmamento della politica monetaria. La crescita dell’eurozona è diversa fra i vari partner con la Germani in prima fila a fare da locomotiva ma mediamente ai massimi di un decennio e supera quella degli Usa che pure hanno varato per primi il Qe e sempre per primi ne hanno iniziato il tapering quattro anni fa, cioè il ritiro graduale con contestuale aumento dei tassi. Ora la Bce continua a seguire le orme della Fed prima di Bernanke e poi di Janet Yellen.
Dall’altra c’è la necessaria prudenza – sottolineata più volte dal banchiere Draghi – contro il rischio di indebolire la ripresa ripetendo l’errore che fece l’ex governatore Bce Jean-Claude Trichet quando decise di alzare i tassi prematuramente e provocò la gelata nella crescita. Da mesi al lavoro, Draghi ha egli stesso fissato il meeting di giovedì come quello decisivo per stabilire ritmo e la tempistica del ‘tapering’ della Bce. Gli acquisti di titoli, in gran parte debito pubblico, procedono a 60 miliardi di euro fino a dicembre. Giovedì si decide sul ‘dopo’ in un’Europa che ha visto il referendum di Brexit e le elezioni tedesche con un partito anti-euro e xenofobo che è entrato per la prima volta nel Bundestag, il parlamento tedesco.
L’ipotesi principale cui si lavora sarebbe, secondo le indiscrezioni raccolte dell’Ansa, un calo piuttosto deciso, a 30 miliardi al mese (si parla anche di 20) ma fino a settembre o dicembre 2018, pur senza fissare una data definitiva irrevocabile. L’alternativa un calo più contenuto, a 40 miliardi, fino a giugno. In realtà, come suggerisce un’analisi degli economisti di Morgan Stanley, poco cambia.
La regola che limita gli acquisti da parte di Francoforte al 33% di ciascuna emissione di titoli e di ciascun Paese farà sì che il Qe arrivi a fine corsa nel 2018. Draghi, con ogni probabilità, cercherà di sottolineare, nella conferenza stampa di giovedì, l’eventuale possibilità di un Qe ancora ‘open ended’, con la possibilità di proseguire oltre se mai fosse necessario. E si soffermerà sui riacquisti dei titoli in portafoglio che arrivano a scadenza, per pari ammontare. Tutto ciò serve a tranquillizzare i mercati, scongiurando il ‘taper tantrum’, quella psicosi da stretta monetaria che nel 2013 una Fed troppo ottimista generò fra gli investitori per poi dover fare marcia indietro. C’è l’euro in cima ai timori della Bce. Un’uscita dal Qe troppo veloce farebbe apprezzare la moneta unica, danneggiando l’export europeo e togliendo all’inflazione ancora fragile l’aiuto dato dai prezzi dei beni importati. E poi c’è la questione dei salari che devono essere aumentati, come il governatore ha già avuto modo di segnalare, per rilanciare i consumi e il potere d’acquisto.
Sarà un Draghi costretto a camminare sul filo come un equilibrista, dunque. Ma non è la prima volta che il governatore prende in mano l’eurozona come fece con il whatever it takes, l’impegno preso il 26 luglio 2012 a Londra a fare “qualunque cosa necessaria” per salvare l’euro, e aggiunse a braccio “credetemi sarà sufficiente”.