Turchia, un duro colpo alla pluralità di informazione

Un ulteriore passo avanti verso un regime autoritario sul Bosforo dove non c’è rispetto per i diritti delle minoranze e la pluralità dell’informazione. L’adesione a un concetto rozzo della democrazia, vista solo come un modo per contare i voti nel momento delle elezioni e non un sistema di garanzie, separazione dei poteri e rispetto dei diritti di tutti i cittadini dello Stato. Questo è il significato profondo della vendita che la holding del magnate turco Aydin Dogan, bandiera della laicità sul Bosforo, avrebbe concluso per la vendita di alcuni tra i principali media di opposizione in Turchia, tra cui Hurriyet e la Cnn turca, a un gruppo di imprenditori vicini al presidente Erdogan per 1,25 miliardi di dollari. Una resa e un segnale inquietante che si aggiunge alle decine di giornalisti turchi in prigione con accuse spesso grossolane e sconfinanti nel mancato rispetto del diritto di critica.

Un pericoloso elemento di preoccupazione che giunge da un paese che ufficialmente è candidato a diventare membro dell’Unione europea, ma che ormai ha capito che questa occasione è definitivamente svanita.  Senza la stella polare di una possibile adesione alla Ue la Turchia sembra aver perso la rotta e come una nave nella tempesta è tornata a guardare solo a Oriente e alle sue tradizioni ottomane. Una svolta autoritaria che si è accentuata dopo la feroce repressione delle proteste per una società più liberale dei giovani di Gezi Park.

Tra i media ceduti ci sarebbero i quotidiani laici Hurriyet e Posta, tra i più venduti nel Paese sul Bosoforo, nonché le tv Cnn turca e Kanal D. Ad acquistare sarebbe la holding che fa capo a Yildirim Demiroren, attuale presidente della Federazione calcistica turca, che nel 2011 aveva già assunto il controllo dei quotidiani di opposizione Milliyet e Vatan, che hanno da allora cambiato la propria linea editoriale. In precedenza era stato chiuso il 4 marzo 2016 da un tribunale di Istanbul il gruppo editoriale che controllava il quotidiano Zaman – il più diffuso in Turchia con 650mila copie – per i suoi legami con il magnate e imam Fethullah Gulen, ex alleato poi diventato nemico giurato del presidente Recep Tayyip Erdogan. Sul sito di Zaman, il quotidiano chiuso nel 2016, si poteva leggere: “Stiamo attraversando i giorni più bui e cupi in termini di libertà della stampa, che è un caposaldo della democrazia e dello stato di diritto”. Parole che continuano a valere anche oggi. Gli ultimi eventi segnano un’ulteriore forte concentrazione di potere mediatico nelle mani di gruppi economici pro-Erdogan.

La società dei media di Dogan Holding e il suo fondatore ottuagenario, Aydin Dogan, sono stati a lungo considerati parte dell’establishment laico della Turchia, i cosidetti “turchi bianchi”, cosmopoliti e secolari, in contrapposizione ai “turchi neri” dell’Anatolia, conservatori e filo islamici. I cosiddetti “calvinisti islamici” dell’Anatolia profonda, i piccoli e medi imprenditori che vedono in Erdogan il loro esponente di spicco hanno vinto una partita ingaggiata più di qualche decennio or sono con le più blasonate famiglie del Bosoforo. Non a caso Erdogan ha ripetutamente accusato la società di Dogan di avere pregiudizi contro il suo partito AK, un partito con radici islamiste, accuse che il conglomerato ha sempre negato.
Nel 2009, Dogan Media è stata multato per 2,5 miliardi di dollari per presunte tasse non pagate, in quello che gli oppositori del governo hanno visto come un tentativo di schiacciare le critiche dei media contro il presidente Erdogan. A seguito del pagamento delle tasse, Aydin Dogan fu costretto a vendere i giornali del gruppo Milliyet e Vatan a Demiroren. Da allora, i giornali hanno adottato una forte posizione politica favorevole alle scelte del governo.