Giovedì 13 settembre tre diverse Banche centrali hanno evidenziato la dicotomia in corso nel mondo delle politiche monetarie tra mercati emergenti che devono sostenere le proprie monete operando politiche restrittive molto aggressive e le economie avanzate che stanno abbandonando i tempi del costo del denaro a basso prezzo.
Quel giorno i tassi turchi sono aumentati al 24% dal 17,75% sorprendendo tutti gli analisti che si aspettavano al massimo un rialzo fino al 22%. Ankara non aveva più molti margini di manovra e alla fine ha agito. Nello stesso giorno la Banca d’Inghilterra ha mantenuto i tassi fermi allo 0,75% mentre la Bce ha tenuto i tassi allo 0% annunciando il proseguimento della graduale uscita dal Quantitative easing nelle dimensioni già annunciate, cioè 15 miliardi di euro di acquisti da ottobre fino a fine anno ma rinvestendo il capitale rimborsato sui titoli in scadenza. La Turchia è stata costretta al rialzo perché le sue società private erano indebitate in valuta forte e non riuscivano a ripagare i debiti a causa della svalutazione della moneta locale che ha perso il 40% del suo valore contro il dollaro da inizio anno. Le economie avanzate invece stanno uscendo da anni di politiche espansive, la Fed in maniera più decisa, la Bce in modo più cauto.
Il presidente della Bce, Mario Draghi, ha ammesso che “i rischi per la crescita rimangono bilanciati ma al tempo stesso i rischi relativi a un crescente protezionismo, a vulnerabilità nei mercati emergenti e alla volatilità dei mercati finanziari hanno guadagnato maggiore preminenza negli ultimi tempi”. Sebbene abbia poi precisato che la crisi della Turchia e dell’Argentina hanno avuto “ricadute limitate”.
Insomma i destini degli emergenti e delle economie avanzate sembrano divergere sempre di più e la politica monetaria lo dimostra in tutta la sua evidenza.