La Regina d’Inghilterra quando chiese alla London School of Economics come mai nessun economista aveva saputo predirre la crisi imminente avrebbe dovuto chiedere ad Antoine Bernheim, l’ex patron di Generali.
Alla domanda fatta quasi per riflesso condizionato che per convinzione di una risposta di chi fosse l’istituzione finanziaria in difficoltà di cui si parlava e che l’ex capo economista del Fondo monetario, Kenneth Rogoff, aveva citato il 7 settembre 2007 a Cernobbio come a rischio, salvo nuovi interventi aggressivi delle banche centrali, Berheim rispose secco e perentorio.
«Credo che sia, che dovrebbe essere soprattutto una storia americana, visto che è quella l’origine geografica del problema», disse il 9 settembre 2007 l’allora presidente di Generali, interpellato ai margini dei lavori di Cernobbio del workshop Ambrosetti a Villa d'Este. Il tentativo era quello di individuare la grossa istituzione in difficoltà e l’uomo fu l’unico ad avere il coraggio o la lungimiranza di dire: «Si è fatto da qualche parte il nome di Citigroup, ma per ora sono solo interrogativi che girano». Le sue parole fecero scalpore tra i presenti che rappresentavano il gotha dell'imprenditoria italiana.
Non solo. Parlando di Generali, Bernheim fece anche riferimento ad alcune critiche che gli erano state rivolte in passato di gestione troppo tradizionalista. «Ogni tanto mi criticano, dicono che sono vecchio, antiquato – disse il presidente di Generali, che allora aveva appena compiuto 83 anni il 4 settembre – ma intanto alle Generali i prodotti derivati e alternativi non ci sono, mai usati, proprio mai. Noi come compagnia di assicurazioni dobbiamo gestire il denaro per poter pagare i sinistri. Alla fine ciò che mi interessa è fare core business per l'assicurazione, farlo al meglio e in condizioni di sicurezza. Senza rischi per la clientela, rischi che lasciamo ad altri». Una bella lezione.
A PARIGI. Un' altra volta a Parigi incontrai Bernheim che, premesso che parlava off the record, amava raccontare aneddoti sulla vita professionale da finanziere di lungo corso alla Banca d’affari Lazard e alle Generali. Era stato appena defenestrato da Cuccia dalle Generali ed era come tormentato da un solo desiderio: tornare alla guida del colosso assicurativo triestino. Ciò che lo aveva irritato di più non era il fatto che si fosse deciso di cambiare il presidente ma il modo che riteneva scortese e irriguardoso. «Tornerò a Trieste», mi confidò e infatti riuscì nell’intento. Ammetto che quel giorno non gli credetti.
AXA. Nel 2005 il «patron» di Axa, Henri de Castries, alla conferenza stampa dei risultati del gruppo assicurativo a Parigi diede una definizione di Bernheim che mi colpì e che riporto oggi perché aiuta a capire il personaggio: «Bernheim difende l'italianità del gruppo di Trieste al punto che il suo vero nome, ormai, dovrebbe essere Antonio Bernini».
Una battuta per chiudere un "tormentone" di cui si parlava ai tempi di possibili fusioni tra i due gruppi. Secondo gli analisti francesi la direzione di Axa escludeva completamente l'ipotesi di un'Opa ostile in materia assicurativa, mentre non era contraria a un avvicinamento amichevole con il gruppo triestino. Negli ambienti finanziari francesi si pensava allora che Generali avesse tre scelte strategiche di fronte sé: rimanere indipendente e crescere organicamente; acquistare un gruppo assicurativo negli Usa o in Asia; allearsi con Axa per creare un campione mondiale. Bernheim seppè effettivamente difendere l’italianità del gruppo triestino.