Nel suo ultimo blog sul New York Times Paul Krugman, premio Nobel per l'economia, continua ad occuparsi di Italia e a considerare il voto italiano come il segnale di una rivolta europea contro le politiche di austerità tedesche che sono un "completo fallimento" che può portare addirittura alla fine dell'euro.
In particolare Krugman si scaglia ancora una volta contro Mario Monti e riprendendo un articolo di Wolfgang Munchau ricorda come nella sua mancanza di realismo politico il premier italiano, durante la campagna elettorale, "si è recato a Davos per parlare con le elite finanziarie e politiche globali proprio nel bel mezzo di una rivolta anti-establishment".
Krugman, riprendendo Munchau, accusa Monti di mancanza di realismo e senso politico e accusa le elite di Bruxelles di promettere la svolta della ripresa dietro l'angolo sapendo che la ripresa con le politiche di austerità non arriverà mai.
C'è da chiedersi se Krugman sa o ricorda come era la situazione italiana nel novembre 2011 quando Monti venne chiamato precipitosamente a presiedere un governo di unità nazionale. Monti dovette operare come quando si chiamano i pompieri per spegnare un incendio: non hai tempo di fare riforme strutturali di lungo termine e aspettare i risultati: devi varare le riforme ma nel frattempo devi anche aumentare le imposte e ridurre gli investimenti pubblici per tranquillizzare i mercati,(cioè quelli che ti comprano i bond su un debito di 1.700 miliardi di euro con interessi che ti costano all'anno tra gli 80 e i 100 miliardi di euro. Il tutto mentre i mercati giustamente temono che tu esca dal mercato e non li ripaghi e faccia bancarotta.
In quella condizioni di emergenza cosa avrebbe fatto lo stesso Krugman? Aumentato la spese pubbliche? Rilanciato i consumi e gli investimenti? Come on baby!
Diverso è il caso di una situazione dove, passata la fase acuta, ti permetta di ragionare su rilancio degli investimenti o rimodulazione della pressione fiscale. Ma i margini di manovra devono passare dal taglio delle spese improduttive, prime fra tutte i costi della politica. Ma Monti sul punto si è scontrato duramente contro le resistenza di tutte le forze che lo sostenevano quando ha cercato di ridurre il numero dei parlamentari o delle indennità dei deputati e senatori per non parlare delle regioni o dell'abolizione delle province.
Se i partiti che lo sostenevano avessero dato un segnale anche minimo (rinunciando magari ai rimborsi spese elettorali) che l'austerità toccava tutti, compresa la classe politica, quella politica di rigore sarebbe stata probabilmente più accettata dai cittadini italiani. Ma proprio la sua ineguaglianza di applicazione sociale ha fatto da detonatore alla protesta di Beppe Grillo. Non è l'austerità in sè, necessaria ed inevitabile per vivere secondo i tuoi mezzi, né la sua applicazione affrettata (vedi il caso degli esodati) ma la mancanza di eguaglianza e senso di solidarietà generale nel colpire allo stesso modo le rendite dei politici e dei grandi burocrati pubblici che l'ha resa intollerabile agli occhi dell'opinione pubblica e dei giovani senza lavoro.