Washington come Londra, Parigi “gollista”, Roma distratta, Vaticano attivo

Quando Barack Obama ha deciso di comunicare sabato 31 agosto ai suoi più stretti consiglieri per la sicurezza nazionale la sua decisione di chiedere il coinvolgimento del Congresso sull'uso della forza in Siria, ha stupito tutti i presenti. Una mossa a sorpresa che avrà conseguenze profonde e durature nella gestione della politica estera degli Stati Uniti. Il presidente Barack Obama infatti ha compiuto il più grande cambiamento  in politica estera del sistema americano mettendo in discussione la supremazia del presidente in politica estera di fronte al Congresso.  Questo è il punto di svolta su cui d'ora in avanti dovremo ragionare per analizzare i rapporti di forza tra potere esecutivo e quello legislativo nel sistema politico americano. Non si tratta di una esagerazione poiché in qualche modo Washington si è spostata da un sistema presidenziale puro verso una sorta di democrazia parlamentare all'europea, sebbene in Europa la Francia gollista resti un'eccezione con la politica estera tutta nelle mani del presidente François Hollande.

 Naturalmente Obama si è affrettato a ribadire che resta nelle sue mani il potere di decidere ogni attacco militare futuro limitato (non una guerra ovviamente che deve sempre passare dall'approvazione del Congresso), ma in questo caso specifico della Siria, sebbene si trattassse di un'azione limitata e quindi fosse una sua prerogativa, preferiva condividere con il Congresso la decisione finale. Non a caso Obama ha detto nel discorso televisivo di sabato 31 agosto dal Giardino delle rose alla  Casa Bianca: "Anche se credo di avere la facoltà di compiere questa azione militare senza specifica autorizzazione del Congresso, ritengo che il paese sarà più forte se prendiamo questo corso e le nostre azioni saranno ancora più efficace".

In effetti come scrive in modo molto efficace Eliot Cohen sul WSJ "Barack Obama non ha bisogno di approvazione del Congresso per lanciare una guerra.  Anche sotto la War Powers Resolution del 1973, che è di dubbia costituzionalità, il presidente deve solo notificare al Congresso entro 48 ore dall'inizio dell'azione militare. Il presidente ha una finestra di 60 giorni per condurre operazioni (più 30 per ritirarsi) senza avere  l'autorizzazione del Congresso".

"Sia George W. Bush che  suo padre, nelle loro presidenze, si sono assicurati l'autorizzazione del Congresso per le loro guerre con l'Iraq. Il presidente Clinton invece si è mosso senza le autorizzazioni del Congresso per le operazioni in Somalia o in Bosnia". http://online.wsj.com/article/SB10001424127887324432404579049261525066516.html?mod=itp

In estrema sintesi: se l'attacco è limitato nel tempo, il presidente può agire senza chiedere l'autorizzazione al Congresso, se invece si tratta di una guerra che si protrae nel tempo, allora deve chiedere l'autorizzazione. Ma Obama ha voluto chiedere il parere anche per un intervento limitato e i precedenti pesano in politica e d'ora in avanti il Congresso, che deve decidere di alzare il tetto del debito a breve (le guerre costano e la crisi economica non è passata), pretenderà di essere sempre consultato preventivamente anche in caso di attacchi limitati.

Ecco perché ne medio-lungo periodo la decisione di Obama potrebbe rappresentare un passo importante verso una democrazia di tipo parlamentare e ridurre gli effetti di quel vecchio arsenale del potere esecutivo della riserva esclusiva al presidente della politica estera, una prerogativa che resta così intatta solo nelle mani del presidente francese, erede anch'esso di una politica de la grandeur un po' fuori moda.

Non bisogna dimenticare che il clima politico era cambiato a Washington dopo la clamorosa bocciatura dei Comuni dei piani bellicosi del premier britannico David Cameron che come ha scritto il Financial Times ne è uscito come "un leader umiliato, una nazione ridimensionata". Ma anche come una lezione di democrazia parlamentare.

A quel punto Obama non si è sentito più sufficientemente forte per intraprendere un'azione militare che resta altamente impopolare nel Paese soprattutto dopo le menzogne dette all'Onu dall'amministrazione di Bush junior sulla armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein per giustificare la Seconda guerra nel Golfo.

Obama, poi, non dimentica che il voto in favore dell'intervento in Iraq costò a Hillary Clinton la corsa alla presidenza.  Come ha scritto Scott Clement sul  Post gli americani si oppongono ad azioni militari su vasta scala  in Siria nella proporzione di 50 contro 42. E anche quando si tratta di attacchi aerei limitati utilizzando i missili da crociera, il sostegno all'azione sale solo al 50 per cento, con il 44 per cento contrario. Troppo poco per un paese che non ha ancora dimenticato i costi delle due guerre precedenti, quella dell'Iraq, e quella in Afghanistan.
Già, alcuni membri del Congresso hanno espresso dubbi circa l'affermazione di Obama che il regime siriano abbia usato armi chimiche qualcosa che non sarebbe successo senza la famosa controversia sulle armi di distruzione di massa  in Iraq.

In queste condizioni così fluide  tutto è possibile: i deputati potrebbero dire sì all'uso della forza, sì ma con limiti, no all'intervento. Se dovesse prevalere una coalizione bipartisan contraria all'intervento, con circa  70 democratici  uniti a circa 100 repubblicani della Camera, non sarebbe l'umiliazione della superpotenza ma solo la sua graduale ed imperfetta trasformazione in una democrazia di tipo parlamentare all'europea. Buon per noi europei, spesso invidiosi di sistemi presidenziali più veloci nel decidere, ma rapidi anche nell'infilarsi nei pantani mediorientali a spese del contribuente. E Roma? Troppo distratta dalle vicende interne. Vaticano invece molto attivo sulla vic
enda siriana.