Che succede sul mercato dei bond turchi? C’è un segnale preoccupante sul Bosforo nonostante l’atteggiamento rassicurante del presidente Recep Tayyip Erdogan: non c’è praticamente più mercato. Come è possibile? Le banche turche che hanno molti titoli in portafoglio non li vendono e se li tengono stretti nelle loro casseforti per non realizzare perdite, sperando in un recupero futuro. Intanto li usano come collaterali, cioè come garanzie solo per ottenere liquidità dalla banca centrale con operazioni a pronti contro termine. Fin qui tutto bene o almeno niente di strano. A preoccupare però sono gli altri investitori, inclusi gli esteri, già “scottati”, che hanno deciso di restare fuori dal mercato. Una politica troppo prudente? Non proprio. Secondo molti analisti la cautela sul mercato delle obbligazioni turche è un buon atteggiamento. Insomma essere prudenti paga. A pesare sull’atteggiamento degli investitori stranieri sono vari elementi: gli squilibri macro (ampio disavanzo delle partite correnti), i fattori di incertezza di politica interna (il Paese deve andare ad elezioni anticipate il 1° novembre dopo colloqui infruttuosi per un governo di coalizione), il quadro geopolitico esterno (il riaccendersi della crisi siriana e il timore di esodi di nuove masse di profughi) e la scarsa propensione ad investire nei mercati emergenti a causa del possibile rialzo dei tassi della Ferderal Reserve. Sono tutti fattori che pesano contro la Turchia e l’acquisto del suo debito sebbene il paese continui a crescere ed ad essere un’oasi di relativa stabilità in un area di crisi. Anche le agenzie di rating lanciano l’allarme: «Le banche turche possono rallentare la loro crescita nel concedere prestiti nel 2015-16, dato che i finanziamenti in valuta estera diventeranno probabilmente più costosi» ha scritto Moody Investors Service in un rapporto pubblicato oggi.
In Turchia, il punto di riferimento del bond a due anni del Tesoro, è stato poco scambiato questo mese, riportano i dati compilati da Bloomberg. Calo dell’appetito degli stranieri e la riluttanza delle banche locali a vendere e realizzare le peggiori perdite di qualsiasi debito pubblico nei mercati emergenti quest’anno hanno frenato il volume delle obbligazioni scambiate, secondo Onder Turker, un trader del debito presso Akbank TAS, il secondo più grande finanziatore del paese, riporta l’agenzia Bloomberg.
La scarsità di liquidità del mercato si aggiunge alle ragioni per cui gli investitori sono prudenti verso un paese dove è riesplosa la questione dell’autonomia curda, la prospettiva delle seconde elezioni in sei mesi e il rallentamento della crescita economica. Una situazione di incertezza che unita alla possibilità di un rialzo dei tassi di interesse negli Stati Uniti, fattore comune a tutti i mercati emergenti come Brasile e Sud Africa, spingono gli investitori internazionali e fondi pensione a vendere il debito turco.
«Gli investitori temono che potrebbero rimanere in qualche modo bloccati in possesso di debito turco, soprattutto alla luce dei segnali della banca centrale che potrebbe alzare i tassi di interesse in risposta alla normalizzazione della Federal Reserve,” ha detto martedì Phoenix Kalen, direttore dei mercati emergenti a Societe Generale a Londra. Così gli investitori stranieri hanno venduto circa 5,5 miliardi di dollari di obbligazioni turche quest’anno, con i rendimenti del bond governativo a due anni saliti a 11,55 per cento.
I decennali dei bond turchi hanno un rendimento del 10,64% ma gli investitori tengono d’occhio anche il costo dei Cds, i credit default swap, sui bond turchi a cinque anni in dollari che oggi sono arrivati a 309 contro 220 punti toccati in estate. Un segnale di nervosimo e volatilità di cui tenere conto. In altri termini: chi per esempio avesse acquistato bond turchi a inizio anno avrebbe sì un rendimento del 10,64% annuale da incassare ma se poi dovesse riconvertire le lire turche, che oggi valgono 3,38 per un euro e 3,03 per un dollaro si accorgerebbe amaramente che sempre da inizio anno avrebbe perso il 20% sulla valuta turca sull’euro, per una perdita algebrica sull’investimento, a causa del rischio cambio, del 10 per cento.