Cosa significa vincere un referendum costituzionale per un soffio, con il 51,4% dei voti quando Recep Tayyip Erdogan ha perso il consenso nelle tre principali città del Paese sul Bosforo? Un segnale politicamente e sociologicamente inquietante che riapre il dibattito che abbiamo visto appassionare gli analisti nel voto su Brexit, con la capitale Londra schierata a favore dei Remain e il resto del Paese deciso a tornare a un pericoloso nazionalismo in salsa sovranista e protezionista. Anche nelle recenti elezioni presidenziali americane, Donald Trump, ha perso nei grandi centri urbani come San Francisco, Los Angels e New York, guadagnando consensi soprattutto nelle aree rurali e marginalizzate dalla globalizzazione. Non a caso si è parlato di voto di protesta dei perdenti della globalizzazione.
Uno vale uno nell’urna dei referendum, ma nel voto turco oltre ai sospetti dell’Osce di brogli, abbiamo visto ripetersi lo stesso schema città-campagna delle ultime consultazioni. Erdogan ha perso, e non accadeva dal 2002, proprio dove era stato eletto sindaco, la città simbolo del Paese sul Bosforo, Istanbul, che con i suoi 17 milioni di abitanti e il 20% del Pil del Paese è il cuore pulsante della Turchia. Perdere Istanbul è come perdere il consenso sulla città-guida, sui movimenti politici ed economici più importanti, ed un segnale inquietante di drammatica polarizzazione del Paese che non promette niente di buono.
Se poi alla sconfitta nella metropoli di Istanbul si aggiunge la perdita di Ankara, la capitale voluta dal nulla dal fondatore della Turchia moderna, Kemal Ataturk, e Smirne, la roccaforte del Chp, il partito secolarista, laico e di sinistra, allora l’analisi del voto del referendum turco è davvero allarmante. La parte più moderna e progressista del paese della Mezzaluna ha voltato le spalle a Erdogan e al suo controverso progetto di presidenzialismo spinto con toni neo-ottomani. Dare risposte semplici a problemi complessi e tipico dei populismi ad ogni latitudine. Le ricette di Erdogan infatti non fanno breccia nei palati più sofisticati e liberali del Paese. La lira turca ha perso dal 15 luglio dello scorso anno in occasione del fallito colpo di stato in Turchia, il 20% del suo valore rispetto al dollaro. Bene per l’export, male per l’inflazione e il potere di acquisto interno delle famiglie e per le società turche che si sono indebitate in euro o dollari con il classico carry trade sui mercati valutari. I mercati internazionali vogliono stabilità politica per gli investimenti di lungo termine, ma un paese dove la parte più dinamica ed occidentale volta le spalle al leader in carica può riservare sorprese sgradevoli a chi punta a diventare un potenza economica e finanziaria regionale.