Che succede nell’Iran khominista dopo 40 anni di regime teocratico? Domanda complessa a cui per rispondere occorre fare un’analisi della situazione a distanza con le difficoltà di raccogliere notizie in un paese senza fonti di informazioni libere e con pochissimi reporter internazionali sul campo. Tenendo presente che nessun analista della materia, compresi quelli americani, quelli dotati di maggiori finanziamenti e mezzi, ha saputo prevedere le proteste in corso: un grande smacco per tutti, l’ultimo di un 2017 dove la stampa internazionale (vedi l’elezione di Trump) non ha brillato in materia di capacità di prevedere grandi rivolgimenti elettorali.
Ma torniamo all’Iran. Tutto ha inizio giovedì 28 dicembre, quando un gruppo di dimostranti si riunisce nella città di Mashhad e manifesta contro le politiche economiche del governo iraniano di Rouhani e in particolare contro il carovita. Si parla anche di aumenti del costo delle uova a causa di uccisioni di polli per contenere un’epidemia d’aviaria. E soprattutto di aumenti della benzina, in un paese dove il parco auto è molto vetusto e le auto in media consumano molto carburante e inquinano.
Questa dimostrazione di protesta avviene in una città santa per i musulmani sciiti e dove Reza, l’8 ° imam sciita, è sepolto. Come spesso accade in Iran dove religione sciita e stato laico si mescolano il santuario dell’Imam Reza è anche un conglomerato multimiliardario che possiede un certo numero di industrie, banche, ospedali e, seminari per il clero in tutto il paese. Il conglomerato è posto sotto la supervisione del capo supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, che in quell’ircocervo che è la Repubblica islamica è sia il capo supremo religioso che la guida suprema laica del Paese. Insomma una teocrazia dove però esistono le Bonyad, le Fondazioni esentasse che hanno incamerato le enormi proprietà della corona imperiale dei Pahlevi e si sono impadronite del 60% dell’economia del Paese e delle sue ricchezze energetiche. Le Bonyad hanno fini istituzionali di beneficienza e di assistenza, non pagano tasse sui profitti e coinvolgono sei milioni di iraniani: sono una rete essenziale nella conquista del consenso sociale.
La presenza del conglomerato Imam Reza fa di Mashhad la terza città più importante in Iran, dopo la capitale Teheran e la città di Qom, il Vaticano sciita, dove vivono gran parte degli ayatollah iraniani. Diversi servizi di sicurezza e di intelligence, tengono d’occhio Mashhad per assicurarsi che sia un luogo sicuro per i milioni di pellegrini provenienti da tutto l’Iran e dall’estero che visitano la città santa ogni anno. La scarsa reazione di forze così potenti ha fatto pensare a un complotto dei Guardiani della Rivoluzione per mettere in difficoltà i riformisti di Rouhani. Altri analisti invece credono che la reazione non vi sia stata perché la dimostrazione ha colto di sorpresa gli apparati di sicurezza e ha spiazzato i pretoriani del regime.
Le proteste di giovedì si sono subito sparse in tutto il paese, nelle periferie, in quegli strati sociali esclusi dal dividendo dell’accordo con l’Occidente sul nucleare. Insomma è apparso subito chiaro che su 80 milioni di iraniani, la maggior parte soffrono dello stesso disagio economico di Mashhad. È interessante notare che, a differenza dell’Onda verde del 2009 che è iniziato nella capitale, le recenti proteste si sono diffuse per lo più nelle province. Si ripropone dunque la sfida tra periferia e città, tra beneficiari della globalizzazione (o apertura all’Occidente nel caso iraniano) e coloro che non ne vedono i dividendi.
Incoraggiati dalla scarsa reazione del governo contro le dimostrazioni a Mashhad, migliaia di iraniani hanno espresso la loro insoddisfazione per le politiche economiche ed di politica estera del governo Rouhani e in generali, strappando i manifesti della Guida suprema Khamenei, la loro rabbia contro il governo islamista che è al potere dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista. I manifestanti includono dipendenti statali e del settore privato che negli ultimi anni hanno visto aumentare i prezzi dei generi di prima necessità giorno dopo giorno, pensionati che non ricevono le loro pensioni puntualmente, persone che hanno perso denaro in diverse forme di investimento, studenti preoccupati di non trovare lavoro e giovani donne stanche (fra cui l’icona della protesta subito arrestata) di dover subire le angherie della polizia morale che controlla se ci sia il velo sul capo e se l’abbigliamento sia adeguato ai precetti della morale khomeinista.
Molti manifestanti hanno protestato contro le numerose guerre vittoriose effettuate per procura in Siria e Iraq che hanno dissanguato le casse dello stato, per finanziare i sogni di egemonia nella regione.
Ma facciamo un passo indietro. Il 10 dicembre, il presidente Hassan Rouhani ha presentato la sua legge di stabilità sotto il segno dell’austerità per attrarre gli investimenti stranieri, un budget che in sostanza renderà la vita più costosa per i cittadini (tra cui un controverso aumento del prezzo della benzina poi ritrattato in fretta e furia da Rouhani nel discorso tv alla nazione) e, al tempo stesso, ha incluso stanziamenti generosi per le organizzazioni religiose in Iran. Non a caso i dimostranti hanno dato fuoco anche a dei seminari. Rouhani ha cercato di mettere ordine nei conti per attrrarre gli investitori internazionali salvando dall’austerità le fondazioni dei Guardiani della Rivoluzione e quelle del clero sciita. Lo slogan “No a Gaza, No in Libano, I do la mia vita per Iran” è stato ripetuto nelle proteste in diverse città. Molti iraniani considerano il generoso aiuto del loro governo alla palestinese Hamas, al partito libanese Hezbollah , al regime siriano di Assad e agli huti yemeniti come inutili.
Nonostante il coraggio e l’energia dei dimostranti, nessuno ancora sa esattamente cosa stia succedendo in Iran. Gli analisti sono confusi e cauti. E le persone per le strade non sostengono apertamente nessun leader o gruppo politico; i dimostranti hanno scandito slogan contro Rouhani e Khamenei, ma a differenza del 2009, non ci sono leader che li guidino. Che sia una protesta anti-sistema appare sempre più chiaro, ma dall’esito incerto. Circa all’innesco delle proteste appare chiaro che la molla sia stata una legge Finanziaria sperequativa che toglie ai poveri e dà alle fondazioni religiose, che hanno in mano il 60% dell’economia del paese senza pagare un Rial di tasse. Per compiacere il Fmi Rouhani ha fatto scatenare la protesta sociale. Un equilibrio che le spedizioni militari in Siria e Iraq hanno contribuito a far saltare.