Nel recente film di Luciano Ligabue “Made in Italy” c’è una frase semplice ma simbolica: “Mio nonno ha costruito la casa, mio padre l’ha ingrandita e io non riesco a mantenerla”. Mi è venuta in mente per associazione un frase simile del film di Federico Fellini in Amarcord, quando uno dei protagonisti parla di suo padre che costruisce i mattoni ma non ha mai potuto costruire una casa per sé. Come spesso accade ai poeti e cantautori in una sola frase sanno raccontare, in sintesi, fenomeni complessi e sfuggenti come gli effetti economici e sul tasso di occupazione della globalizzazione sulla manifattura, un tempo fiorente, della Pianura padana. Magari incosapevolmente. Magari, no.
Non so se Ligabue avesse questo proposito di per sè arduo per chiunque, ma con efficacia e leggerezza ha descritto i drammatici effetti sociali creati dalla delocalizzazione e dalla concorrenza dei paesi emergenti, peraltro fenomeni simili a quelli verificatisi in anticipo negli Stati della cosideta “cintura della ruggine” o rust belt negli Stati Uniti d’America. Insomma Ligabue si è trovato a “cantare” attraverso le immagini e la sua musica la rabbia e la frustrazione anti-globalizzazione degli operai emiliani in sempre maggior precarietà, forse suo malgrado, come un novello Woody Guthrie, il cosiddetto menestrello della Grande depressione americana del 1929, il maestro di Bob Dylan.
Non so se ne avesse e ne ha avuto l’intenzione o la consapevolezza, ma il racconto può essere interpretato anche come una atto di accusa sugli effetti sociali di questi fenomeni epocali nell’area industriale del Nord Italia. Certo non siamo di fronte alla profondità delll’epopea di Novecento di Bernardo Bertolucci (troppe bandiere rosse dissero i produttori di Hollywwod la prima volta che lo visionarono) ma nemmeno a una banale fiction tv che edulcora i problemi fino allo svilimento intellettuale; anzi c’è quasi troppo nel lungo elenco di problemi e tematiche che attanagliano la vita immaginaria del piccolo borgo emiliano centro della narrazione filmica: crisi della famiglia, disoccupazione, precarietà, mancanza di risposta politica collettiva, piaga del gioco d’azzardo, gli scheletri di vecchie manifatture arrugginite a simboleggiare la mancanza di una possibile crescita economica e la via della emigrazione come unico sbocco di vita.
Un racconto forse eccessivo nella sua drammatica visione pessimistica? Un feuilletton nazional-popolare? Forse, ma comunque una tentativo riuscito almeno di provare a dare una colonna sonora ai drammi sociali nel tempo della globalizzazione nella Pianura padana.