Cosa accadde nel luglio 2015 in Grecia a un passo dall’uscita dall’euro e cosa ci possono insegnare quegli eventi rispetto ai recenti sviluppi politici italiani? A dicembre del 2014 Il governo Samaras era in una situazione di moderata ripresa economica trascinata da investimenti ed export, ma la troika chiese un aumento dell’Iva per aumentare il surplus di bilancio primario. Samaras, conservatore di Nea Dimokratia, invece di mediare si impuntò e decise di andare al voto anticipato sfidando le richieste dei creditori basate su aumenti delle imposte e tagli alle pensioni.
Purtroppo per Samaras gli elettori stanchi di tanti sacrifici inanellati dal 2009 preferirono premiare un piccolo partito di sinistra radicale, Syriza, che in due precedenti elezioni aveva ottenuto appena il 4% dei voti. Insomma decisero di mandare un segnale forte alla Troika che ne avevano abbastanza di austerità e di un Europa matrigna e poco solidale.
Syriza vinse le elezioni e cominciò con il sulfureo ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, lo scontro con la Troika minacciando l’uscita dall’euro se non si fosse attenuata le richieste di una austerità brutale. Si discusse in un albergo di Atene in una riunione di alcuni esponenti dell’ala sinistra del partito di Syriza, che avrebbe dovuto restare riservata, anche di un eventuale piano B che prevedeva l’emissione di pagherò e il ritorno alla dracma. Le notizie (smentite ufficalmente) di un possibile abbandono dell’euro spaventarono la popolazione e le imprese greche che tra novembre 2014 e febbraio 2015, ritirarono dalle banche 25 miliardi euro, cioè il 15% dei propri depositi. Le banche, a corto di liquidità, dovettero nuovamente chiedere a prestito liquidità tramite l’Ela alla Bce. Varoufakis, che insegnava teorie dei giochi, sperava di spuntarla minacciando la rottura dell’unione monetaria ma fece un clamoroso errore: tirò troppo la corda finché gli altri partner stanchi di ricevere lezioni di economia ne chiesero la testa.
Fu l’inizio della capriola di Tispras, “kolotoumba”, così i greci chiamarono la girovolta del premier, che pur avendo vinto il refendum popolare che rifiutava l’accordo con i creditori quando si recò a Bruxelles a luglio 2015 dovette capitolare.
Perché Tsipras dovette cedere? Perché erano cambiate le condizioni. Secondo analisti della Brookings nel 2009 Il direttore generale del Fondo Christine Lagarde e la cancelliera Merkel erano pronte a considerare un’uscita di Atene dall’euro ma vennero frenati dall’allora governatore della Bce, Jean Claude Trichet, e dal ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble che temevano ripercussioni per le banche tedesche, francesi e olandesi. Nel 2015 le cose erano cambiate: il debito greco non era più in mano a creditori privati che rischiavano a loro volta il default ma era in mani pubbliche. Così le posizioni di Merkel e Schäuble si invertirono nel 2015 e il ministro delle Finanze tedesco preparò un piano che presentò a Bruxelles secondo cui Atene poteva uscire dall’euro per un periodo di 5 anni perché non era più preoccupato per la sopravvivenza dell’euro stesso. Era la fine di un tabù.
Schaeuble per essere certo della Grexit aggiunse una richiesta che Tsipras non avrebbe potuto accettare; chiese la creazione di un fondo che avrebbe dovuto incamerare i fondi delle privatizzazioni greche da collocare in Lussemburgo. L’Italia di Matteo Renzi e la Francia di François Hollande si opposero a questa proposta di Grexit che però venne fatta con il sostegno dei paesi nordici. I negoziati durarano 17 ore a margine del vertice di Bruxelles alla presenza di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, la cancelliera Merkel, il presidente francese François Hollande, Alexis Tsipras e il nuovo ministro delle finanze greco Euclid Tsakalotos. Alle fine l’accordo fu trovato e Atene accettò il terzo piano di aiuti da 86 miliardi di euro con le relative richieste di aumentare le imposte e diminuire le spese sociali.
La Grecia, umiliata, accettò i patti e ad agosto 2018 è uscita dal terzo piano di salvataggio, senza più i controlli dei capitali ma con una sorveglianza rafforzata e una riserva di soli 24 miliardi di euro.
Ne valeva la pena? Il risultato della crisi del 2015 è stato quello di perdere tempo e risorse preziose in un inutile tentativo di evitare la strada stretta del risamento graduale con la fiducia dei mercati. Mi si dirà che l’Italia non è la Grecia: l’Italia è la terza economia dell’area euro e una crisi fiscale italiana avrebbe ripercussioni destabilizzanti su tutto il sistema finanziario europeo. Vero, ma perché non puntare sugli investimenti infrastrutturali come chiesto dai ceti produttivi invece che su spese di assistenza e cercare di cambiare dall’interno la Ue chiedendo in campo di unione bancaria ad esempio la modifica del trattamento dei derivati nei conti delle banche tedesche e francesi pari 6.800 miliardi di euro? Meglio negoziare dall’interno trovando le necessarie alleanze tra paesi partner che tentare pericolose e solitarie fughe in avanti con cui si rischia prima di farsi molto male e poi di doversi alla fine piegare a una capriola di sano realismo. Ma questo significa conoscere i meccanismi europei, invece spesso i politici italiani privilegiano Roma a Bruxelles, per poi dover fare una rapida inversione nell’utimo miglio.