Perché va ascoltato l’ex capo economista della Bce, Issing, quando dice che l’uscita dall’euro non è più un tabù

In vista del ventesimo anniversario dell’euro, uno dei principali architetti della moneta unica, Otmar Issing, ha affermato che l’idea di abbandonare l’euro non può più essere off limits, cioè esclusa a priori se un membro viola deliberatamente le regole fiscali. Solo una battuta fuori tempo di un “Falco” della Bundesbank? No, è un segnale importante d’insofferenza che non va affatto sottovalutato dagli addetti ai lavori perché indica che alcuni settori tedeschi e di altri paesi della Lega Anseatica come l’Olanda del premier Mark Rutte sono stanchi di dover continuare a tenere la disciplina fiscale con la Commissione europea e vorrebbero passare il compito al Fondo salva stati (ESM) ritenuto più severo,  meno politicizzato e soprattutto più intergovernativo.

Vediamo prima nel dettaglio la dichiarazione di Issing rilasciata a un quotidiano tedesco. Otmar Issing, membro fondatore del comitato esecutivo della Banca centrale europea ed ex capo economista dell’Istituto centrale, ha dichiarato al quotidiano tedesco Der Tagesspiegel che l’euro “può sopravvivere solo se tutti i paesi si conformano ai loro impegni”. “Finora, non è stata prevista l’uscita di un paese dall’unione monetaria – l’adesione è considerata irreversibile, ‘eterna’ per così dire”, ha detto Issing. “Ma se i conflitti diventano radicali a causa della cattiva condotta di un paese o di più paesi, la questione del ritiro non può più essere un tabù”. Insomma non si puà trattenere per forza un paese se questo vuole uscire da un sistema monetario.

Issing ha puntato il dito sull’Italia come un problema particolare, affermando che “non solo viola gli impegni che il Paese ha assunto con la Commissione Europea, ma si vanta anche della sua deliberata violazione delle regole”.  Issing sembra sostenere quei governi della cosiddetta “Lega Anseatica” che si oppongono a misure di flessibilità del Patto di stabilità .

L’Italia ha sfidato Bruxelles negli ultimi mesi rispetto ai piani di bilancio proposti, sebbene poi la Commissione europea abbia deciso di non avviare per ora una procedura di infrazione sul debito eccessivo dopo che il governo del paese si è impegnato a contenere le spese.

Il precedente greco

Secondo fonti ben informate nel 2009 Il direttore generale del Fmi Christine Lagarde e la cancelliera Merkel erano pronte a considerare un’uscita di Atene dall’euro ma vennero frenati dall’allora governatore della Bce, Jean Claude Trichet, e dal ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble che temevano ripercussioni per le banche tedesche e francesi piene di bond greci (più redditizi dei bund) e ritenuti senza pericolo perché nell’eurozona (moral hazard). Germania e Francia decisero di non applicare l’haircut (il taglio del debito) come chiedeva insistentemente il Fmi per evitare di dover poi salvare a proprie spese le rispettive banche nazionali pesantemente coinvolte. Ci si limitò all’austerità e ai prestititi statali (non c’era ancora il Fondo salva stati) e a consentire alla Bce di acquistare bond greci sul mercato secondario venduti dalle banche francesi e poi tedesche a piene mani.

Nel 2012 le cose erano cambiate: il debito greco non era più in mano a creditori privati che rischiavano a loro volta il default ma era in mani pubbliche e a piccoli risparmiatori e pensionati greci. Così si fece il più grande haircut (200 miliardi di euro) della storia moderna. Successivamente le posizioni di Merkel e Schäuble si invertirono nel 2015 e il ministro delle Finanze tedesco, esasperato dal ministro greco Varoufakis, preparò un piano che presentò a Bruxelles secondo cui Atene poteva uscire dall’euro per un periodo di 5 anni perché non era più preoccupato per la sopravvivenza dell’euro stesso. Era la fine di un tabù.

Schaeuble per essere certo della Grexit aggiunse una richiesta che Tsipras non avrebbe potuto accettare; chiese la creazione di un fondo che avrebbe dovuto incamerare i fondi delle privatizzazioni greche da collocare in Lussemburgo. L’Italia di Matteo Renzi e la Francia di François Hollande si opposero a questa proposta di Grexit che però venne fatta con il sostegno dei paesi nordici. I negoziati durarano 17 ore a margine del vertice di Bruxelles alla presenza di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, la cancelliera Merkel, il presidente francese François Hollande, Alexis Tsipras e il nuovo ministro delle finanze greco Euclide Tsakalotos. Alle fine l’accordo fu trovato e Atene accettò il terzo piano di aiuti da 86 miliardi di euro con le relative richieste di aumentare le imposte e diminuire le spese sociali.

La Grecia, umiliata, accettò i patti e ad agosto 2018 è uscita dal terzo piano di salvataggio senza  più i controlli dei capitali e con una riserva di 24 miliardi da usare in caso di bisogno se le condizioni dei mercati non fossero delle migliori per chiedere nuovi prestititi.

Ora sembra che Issing stia ripercorrendo le orme di Schauble quando questi disse che l’uscita della Grecia dall’euro non era da considerarsi più un tabù. Un confronto pericoloso per tutti in un momento in cui l’economia globale dà segnali di stanchezza e il rialzo dei tassi della Fed potrebbe aprire più di una turbativa valutaria nei mercati emergenti.  Il momento peggiore per nuove prove di forza.